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Il concetto di nazione 

Di Prof. Alessio Lodes

L’idea di nazione costituisce un tema centrale della storia contemporanea. La sua complessità, le sue declinazioni, il suo rapporto con il principio di nazionalità e con il nazionalismo, che hanno profondamente segnato le vicende del mondo contemporaneo, hanno alimentato un vivace e prolungato dibattito della storiografia e costituiscono tuttora parte di rilievo della riflessione culturale e della discussione politica. Nel 1981, Rosario Romeo osservava che «Nazione e nazionalità sono stati per due secoli temi centrali della storia italiana ed europea», ma che dopo il 1945 «era sembrato che i valori nazionali e le realtà politiche con cui essi si intrecciavano fossero stati anch’essi travolti nel crollo dei maggiori Stati del continente […]». Il vuoto creatosi sollecitava «l’esigenza politica e intellettuale di colmarlo. E in effetti – aggiungeva – sul terreno politico ogni idea di costruzione europea deve fare i conti col passato nazionale e individuare i residui che tuttora ne sopravvivono, specie in alcuni paesi, anche sotto lo schermo di calorose professioni di fede comunitaria; e perché questi conti possano tornare è necessario riproporre il problema anche sul terreno storiografico», sul quale si svolgeva il suo sostanzioso contributo. Da tempo, ormai, il tema è al centro del dibattito politico e culturale, ma a distanza di oltre un quarantennio, queste osservazioni appaiono ancora attuali e feconde di stimoli, nonostante il grande lavoro compiuto da storici, filosofi e sociologi.

La nazione, infatti, «rimane un oggetto estremamente complesso, concettualmente fluido e per ciò stesso altamente controverso». Inoltre è necessario raccordare il processo evolutivo dell’idea di nazione con l’esperienza storica del nazionalismo, che può indicare fenomeni diversi: «Con esso, infatti, si fa di volta in volta riferimento al processo storico complessivo della formazione dello Stato nazionale; all’insieme delle idee, delle teorie e delle ideologie che in vario modo affermano il principio del valore eminente della ‘nazione; ai movimenti organizzati e ai partiti che sulla base di tali teorie progettano di fondare, di consolidare o di espandere il proprio Stato nazionale; a uno specifico sentimento di appartenenza, che può essere altresì ‘naturale’ o costruito; e ancora, a un complesso di meccanismi di comunicazione e di integrazione sociale che svolgono una funzione decisiva nei processi di modernizzazione». È quindi proprio questa complessità che ne fa un nodo storico cruciale, con particolare riferimento alle vicende dell’età contemporanea. 

L’idea di nazione ha una lunga storia. Nel tempo il termine nazione ha assunto significati diversi, che possono essere colti solo attraverso un’attenta contestualizzazione, che consenta di coglierne le variazioni e le dinamiche specifiche e in particolare l’evoluzione attraverso le diverse epoche storiche. È possibile rintracciare il tema sin dall’antichità. La Bibbia ebraica fornisce l’indicazione di una comunità di uomini uniti dall’osservanza della Torah e dalla fedeltà al patto con Dio. Lo si ritrova anche nel mondo greco e romano, dove compare il termine natio 6 . Ma si tratta di fenomeni diversi dal moderno nazionalismo. Nel ripercorrere il percorso dell’idea di nazione dall’antichità all’età medievale e moderna è necessario quindi non fraintendere il significato del termine, attribuendogli contenuti tipici di fasi storiche successive ed in particolare quelli derivanti dagli aspetti e dai problemi della storia contemporanea.

In epoca medievale, il termine natio aveva un significato etnico, socioculturale o geografico. Designava gli studenti che affollavano le università europee e i vescovi che partecipavano al Concilio di Costanza. La natio era il luogo di nascita e di origine, senza connotazione politica. In quest’epoca è possibile individuare processi di costruzione di identità etnico-culturali in realtà statuali in costruzione, destinati a consolidarsi nel corso dell’età moderna, come nel caso della lotta dei sovrani spagnoli per la cacciata degli arabi musulmani. Una significativa evoluzione dell’idea di nazione si registrava nell’arco di tempo compreso tra la Riforma (1517) e la Rivoluzione francese (1789). In questa fase storica, si rafforzava il potere dei sovrani in alcuni dei principali Stati europei, si diffondeva l’autorità delle lingue letterarie al di sopra dei dialetti, si radicavano le chiese riformate. In Germania il richiamo alla “nazione” in accezione naturalistica e spirituale si poneva in polemica con l’universalismo cattolico-romano. L’affermazione del principio cuius regio eius religio rafforzava il legame tra sovrani e sudditi. La coscienza unitaria legata alla cultura e al territorio si faceva strada soprattutto tra i ceti politicamente e culturalmente dominanti, il cui ruolo era essenziale a fianco dell’azione unificatrice delle monarchie: «In questo senso, - ha osservato Rosario Romeo - la dimostrazione del carattere “storico” di quelle che poi saranno le moderne entità nazionali, in quanto risultato di processi unificatori della più diversa origine, che nell’Europa occidentale sono anzitutto a carattere politico-statale, può dirsi ormai raggiunta, così da relegare nel passato ogni visione del fatto nazionale come prodotto di originari elementi culturali o razziali» .

Comparivano le nazioni culturali (Italia e Germania), accanto al profilarsi delle nazioni statali, nelle quali si riconoscevano essenzialmente le élites politiche e culturali. Lo Stato moderno promuoveva la nazione, ma le due entità rimanevano distinte: la sovranità apparteneva al re. Il processo di costruzione della nazione scaturiva da un intreccio complesso e plurisecolare caratterizzato dal rafforzamento del potere regio, dall’affermazione del vincolo dinastico, dalla definizione dei confini. Riguardava specialmente la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna. Si precisava con l’evoluzione in senso assolutistico delle monarchie nella prima metà del diciassettesimo secolo.

Anche l’opposizione all’assolutismo monarchico faceva appello alla nazione. In Gran Bretagna dal 1640 il Parlamento diveniva il simbolo politico di una nazione minacciata nelle sue libertà. «La cesura di portata storico-universale si ebbe con la Rivoluzione inglese tra il 1642 e il 1659». Secondo Wheler «Non vi sono dubbi sul fatto che la guerra civile rivoluzionaria, la violenta liberazione dall’ereditaria autorità monarchica, l’anticattolicesimo e la volontà di cambiamento dei puritani, la volontà di sancire la fondazione della Repubblica […] e l’orgoglio per quanto ottenuto abbiano fortemente favorito l’ascesa del nazionalismo inglese […]». In Francia, con la Fronda nel 1648 si sviluppava l’opposizione dei nobili contro l’assolutismo: in questa lotta, la nazione era vista come un limite al potere dello Stato, ma era una nazione aristocratica, che comprendeva il clero, la nobiltà, i tribunali, ma non il popolo.

Nel corso di questi secoli, numerosi altri fattori contribuivano all’evoluzione del concetto: le scoperte geografiche, con la conoscenza di altri popoli e culture; l’idea di un nesso tra il carattere delle genti, il clima, la collocazione geografica e le specifiche forme di governo; lo sviluppo della stampa; le trasformazioni nell’economia e nella cultura. Questi cambiamenti non vanno sopravvalutati né anticipati nel tempo rispetto ai caratteri dominanti nella società politica di ancien régime; inoltre «nell’Europa prerivoluzionaria maturità e diffusione della coscienza nazionale in senso politico tendono a decrescere man mano che dall’occidente ci si sposta verso le regioni centrali e orientali del continente». Fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, nella cultura tedesca e in quella italiana mancava la dimensione politica del sentimento nazionale. In quel periodo, in particolare in Germania, si discuteva della nazione culturale, «con la definitiva affermazione di un’idea […] destinata ad imporsi alla stregua di un vero e proprio paradigma teorico, alternativo a quello, formalistico e politico-volontaristico, che verso la fine del XVIII secolo sorgerà in Francia […]», espressa in particolare da Johann Gottfried Herder. Nella seconda metà del diciottesimo secolo, la cultura europea elaborava una nuova idea di nazione. Con l’opera di Herder e quella di Rousseau, «la storia della parola ‘nazione’ diveniva altresì la storia di un’idea coscientemente e compiutamente elaborata».

La svolta decisiva verso la formulazione politica dell’idea di nazione si verificava nella Francia dell’illuminismo e della rivoluzione, che segnava una profonda rottura. Rousseau era la fonte della nuova dottrina della sovranità popolare. Il valore fondante della nazione politicamente intesa era la volontà: «L’appello alla volonté générale è qualcosa di nuovo […]. Dalla constatazione di un fatto, creato soprattutto dal passato, la nazione, si comincia a trascorrere alla “volontà” di “creare” un nuovo fatto, vale a dire uno Stato fondato sulla sovranità popolare, e quindi – il trapasso è inevitabile – ad uno “Stato nazionale”». La nazione era l’espressione di tutta la società; per vivere doveva contare sulla propria volontà di mantenersi autonoma, su istituzioni sociali stabili, su una forma di governo consona ai suoi caratteri, su valori e credenze corroborati dalla partecipazione e da un’accurata pedagogia nazionale.

La sovranità implicava l’indipendenza. Il messaggio di Rousseau - ha osservato Romeo - acquistò la sua forza dirompente dalla congiunzione di democrazia e nazionalità. L’idea di nazione diveniva una forza politica. Agli inizi del 1789, l’opuscolo dell’abate Sieyès Qu’est-ce que le Tiers Etat?, dichiarava che il Terzo Stato era la nazione che rivendicava il proprio spazio per il ruolo sociale, economico e amministrativo che svolgeva. Era la nazione contro la nobiltà, un’associazione di cittadini, basata sulla volontà degli individui, sotto una legge comune che poneva fine alle corporazioni e ai privilegi e su una nuova idea di cittadinanza. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata il 26 agosto 1789, fissava i principi di libertà e di eguaglianza, decretava la sovranità della nazione, la legge come espressione della volontà generale, codificava una nuova idea di cittadinanza: l’affermazione del principio della libertà religiosa, con la separazione fra l’appartenenza confessionale e la cittadinanza, dava a questa un significato nuovo, apriva un «capitolo nuovo della storia delle relazioni fra religione e società in Europa», e avviava processi di laicizzazione e di secolarizzazione dalle importanti conseguenze, anche sul piano politico. Fino al diciottesimo secolo la nazione aveva avuto una base ridotta e un contenuto circoscritto.

La Rivoluzione francese dava un fondamento nuovo al termine, faceva della nazione sovrana la nuova fonte di legittimazione del potere in luogo del diritto divino dei re, affermava i principi della volontà generale e della sovranità popolare nella coniugazione di patria e libertà. Con la rivoluzione cambiava il contesto storico, culturale e sociale. La nazione indicava una totalità, non un solo gruppo. Coincideva con il popolo, con i cittadini. Si politicizzava. Trovava nel tempo nuove declinazioni: nella storia del diciannovesimo secolo assumeva un ruolo centrale, mutando progressivamente i suoi contenuti dal patriottismo liberale e democratico al nazionalismo aggressivo.

Dopo la rivoluzione, la nazione manteneva un ruolo centrale nella storia europea. Dietro la cortina della Restaurazione, sopravvivevano fermenti che agitavano a lungo la politica, la cultura e la società in Europa. «Il secolo XIX conosce, insomma - ha scritto Federico Chabod - quel che il Settecento ignorava: le passioni nazionali. E la politica, che nel ‘700 era apparsa come un’arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l’Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista l’impeto, starei per dire il fuoco delle grandi passioni; diviene passione trascinante e fanatizzante com’erano state, un tempo, le passioni religiose, ancora un tre secoli innanzi, all’epoca delle cruente, implacabili contese fra Ugonotti e Leghisti, fra luterani e cattolici, al tempo della notte di San Bartolomeo.

La politica acquista pathos religioso; e sempre di più, con il procedere del secolo e con l’inizio del secolo XX: ciò spiega il furore delle grandi conflagrazioni moderne. Ora, da che deriva questo pathos se non proprio dal fatto che le nazioni si trasferiscono, potremmo dire, dal piano puramente culturale, alla Herder, al piano politico? […] la nazione cessa di essere unicamente sentimento per diventare volontà; cessa di rimanere proiettata nel passato, alle nostre spalle, per proiettarsi dinanzi a noi, nell’avvenire; cessa di essere puro ricordo storico per trasformarsi in norma di vita per futuro. Così, parimenti, la libertà, da mito del tempo antico, diviene luce che rischiara l’avvenire; luce a cui occorre pervenire, uscendo dalle tenebre.

La nazione diviene la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra». Questa idea fattasi politica è novità, è modernità, come ha sottolineato, sia pure con accenti diversi, la storiografia degli ultimi decenni. Nella sua opera classica sul nazionalismo, già Hans Kohn aveva sottolineato la sua natura moderna, il suo radicamento nella storia dell’età contemporanea, ricordando che «Le nazionalità sono il prodotto dello sviluppo storico delle società». I diversi indirizzi interpretativi proposti nel corso dell’ultimo ventennio del ventesimo secolo hanno sollevato interrogativi sui processi di costruzione della nazione, sostenendo tra l’altro la sua natura artificiale, promossa dall’alto, attraverso un’invenzione della tradizione. A giudizio di Hobsbawm «Non sono le nazioni a fare gli Stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario». Hobsbawm «guardava ai grandi cerimoniali politici, ma con l’idea che la liturgia politica, ed in particolare la liturgia politica nazionale, fosse il frutto di appropriate politiche pubbliche, avviate dalle élites dirigenti secondo un processo promosso essenzialmente dall'alto, secondo una tradizione inventata “selezionata, scritta, resa in immagini, diffusa e istituzionalizzata da persone appositamente incaricate”».

Di fatto, nell’Ottocento, la nazione era al centro di un grande processo di elaborazione culturale, legato a diversi modi di intenderla e definirla. «“Costruire” la nazione sulla base di materiali empirici, di strategie discorsive, di simboli e figure, che fanno già parte, anche se in modo disorganico e politicamente disomogeneo, del patrimonio storico-culturale di una comunità, materiali, strategie, simboli e figure opportunamente rielaborati in chiave appunto “nazionale”, non è la stessa cosa che “inventarla” di sana pianta» . È indispensabile quindi studiare la nazione nel divenire concreto del processo storico, inserendola nel suo specifico contesto di riferimento, politico, economico, culturale, sociale, nella ricca, complessa e mutevole cornice offerta dal diciannovesimo secolo.

L’Ottocento è l’epoca della nazionalità. «Per oltre un secolo, nell’Europa post-rivoluzionaria vi sarà posto solo per quegli Stati che potranno darsi una legittimazione in termini di nazionalità: e che essa avesse avuto origine dall’azione unificatrice dello Stato, creatore di una salda comunità di spiriti e di tradizioni […] o che lo Stato attingesse invece unità e consapevolezza di sé da una comunità culturale preesistente, sarà di fatto secondario». Obiettivo della nazione è di costituirsi in Stato. «Il dovere verso lo Stato e la nazione veniva prendendo, anche nelle forme esteriori, caratteri che assumevano toni e andamento di religione, in un mondo in cui il posto delle religioni tradizionali veniva largamente declinando».

Tra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del XIX, il tema della nazione saliva progressivamente al centro della politica europea, influenzato oltre che dall’esperienza rivoluzionaria, dal nuovo clima romantico. Il mondo di lingua germanica vedeva sorgere nelle lotte antinapoleoniche un sentimento patriottico. Si iniziava in ambito intellettuale un processo lungo e articolato di costruzione di un’idea di nazione in cui si smarriva progressivamente la dimensione cosmopolita e si delineava un’idea etnico territoriale e integralista. Nuovi fermenti nascevano in Italia con l’arrivo dei francesi nel 1796 e la costituzione delle repubbliche giacobine. Aveva inizio, sia pure attraverso pause prolungate e considerevoli difficoltà, il dibattito di intellettuali e patrioti che tendeva a coniugare l’idea di nazione con i principi di libertà, che avrebbero conferito un tono volontaristico e inclusivo al processo risorgimentale. Il sostegno internazionale alla lotta per l’indipendenza della Grecia era indicativo del clima dell’epoca, nonostante la durezza della Restaurazione; «il moto delle nazionalità […] percorre tutto il XIX secolo […]. […] è contemporaneo sia dei movimenti liberali sia delle rivoluzioni democratiche e anche delle rivoluzioni sociali, e mantiene con queste tre correnti dei rapporti complessi, mutevoli, ambigui.

Nel passaggio dalle rivendicazioni costituzionali e liberali degli anni Venti, alla successiva crescita del ruolo dei democratici, cominciava il confronto con le tematiche nazionali, che portava alla “primavera dei popoli” del 1848, momento di incontro e di scontro tra liberalismo, democrazia e socialismo: le rivoluzioni del 1848 otterranno dapprima un successo precario, poi la sconfitta sia del liberalismo sia della democrazia. Il 1848, oltre alle giornate parigine del giugno, era anche l’anno della pubblicazione del Manifesto del partito comunista. In Marx ed Engels il tema della nazione era legato alla loro visione generale del processo storico, ricondotto all’ascesa della borghesia, e quindi destinato ad essere superato nella crisi finale del capitalismo. La questione tornava più tardi, nei dibattiti della Seconda Internazionale, nelle analisi di Kautsky sulla specificità della nazione e sulla necessità della fase di passaggio rappresentata dallo Stato nazionale e in quelle degli austromarxisti, posti di fronte ai problemi del riconoscimento dei diritti delle nazionalità negli imperi multinazionali tra autonomia e autodeterminazione. Il concetto di nazione moderna allargava progressivamente la sua presa sul continente europeo, ma rimaneva ancora in parecchie aree un’aspirazione irrealizzata ed in altre rappresentava una realizzazione parziale: il privilegio della proprietà continuava a limitare la nazione ad una cerchia di privilegiati. Lo Stato nazionale era sentito vieppiù come “patria della borghesia” e si apriva una divaricazione tra i partiti borghesi e le nascenti forze del movimento operaio e socialista».

Tra il 1870 e il 1871 si completava il processo che portava all’unificazione e all’indipendenza l’Italia, con Roma capitale, e la Germania, con l’incoronazione di Guglielmo I imperatore nella Reggia di Versailles. Si affermava il principio di nazionalità, ma si chiudeva una fase nella storia dell’idea di nazione, che incominciava ad attraversare una fase di radicalizzazione ideologica e politica. Circa un decennio più tardi, l’11 marzo 1882, Ernest Renan, in una conferenza alla Sorbona, esprimeva in una celebre frase - «L’esistenza di una nazione è […] un plebiscito di tutti i giorni come l’esistenza di un individuo è una affermazione perpetua di vita» - l’essenza del carattere elettivo della nazione. Nel suo discorso si riverberava l’eco dolorosa della perdita dell’Alsazia e della Lorena in seguito alla guerra franco-prussiana, annesse dalla Germania senza consultare la popolazione locale. Con il 1871 si avviava una svolta che segnava il passaggio dall’idea di nazione liberale e democratica ad un nazionalismo esclusivista ed aggressivo, che incideva significativamente nella vita interna degli Stati e nel quadro delle relazioni internazionali.

Questo svolgimento deve essere inserito in un complesso quadro di riferimento, che in questa sede può essere solo sommariamente indicato, relativo ai profondi cambiamenti della società europea nei decenni compresi tra la guerra franco-prussiana e lo scoppio della Prima guerra mondiale. Quegli anni furono per l’Europa un’epoca di sostanziale pace e di sviluppo, capaci di alimentare la fiducia nell’idea di progresso. Fu un periodo di importanti conquiste in numerosi settori, che comportavano anche delle trasformazioni profonde e laceranti, capaci di provocare interrogativi, disorientamento, timori in larghi settori della società europea, posta di fronte a intensi processi di modernizzazione e a una grave crisi dei sistemi tradizionali, spinta per questo alla ricerca di certezze e di valori rassicuranti ai quali ancorarsi. Nel giro di poco più di un quarantennio, cambiava l’economia, con la seconda rivoluzione industriale e lo sviluppo del capitalismo finanziario. Si intensificavano i processi di secolarizzazione e la crisi delle religioni tradizionali. Proseguiva la tendenza all’urbanizzazione, che mutava il rapporto tra città e campagna. La rivoluzione nei trasporti accorciava le distanze.

Le campagne di alfabetizzazione favorivano lo sviluppo della stampa e dell’opinione pubblica. Nascevano nuovi mezzi di comunicazione. Si allargava la partecipazione politica, con l’ampliamento del diritto di voto, la nascita dei nuovi partiti di massa e dei sindacati. Si profilava l’avvento di una nuova società dominata dalla presenza delle masse. Gli Stati nazionali sviluppavano, specie attraverso la scuola e il servizio militare la propria pedagogia nazionale, strumento di integrazione delle masse, che si serviva in misura crescente anche di simboli, miti, liturgie, destinate ad ulteriori sviluppi e successi. Cresceva la dimensione religiosa assunta dal nazionalismo. Nuovi orientamenti della scienza e della cultura sembravano fornire una copertura scientifica ad una politica di potenza e ad una ideologia di riscossa borghese di fronte all’allargamento della partecipazione politica con l’ampliamento del diritto di voto, alla crescita del peso del movimento operaio e dei partiti socialisti organizzati nella Seconda Internazionale.

Come è stato attentamente indicato, l’idea di nazione continuava a svolgere un ruolo di integrazione nell’ambito dei processi di democratizzazione, ma nel contempo si caricava di implicazioni illiberali, legittimava tendenze autoritarie, individuava nemici interni, che servivano anche ad una ridefinizione di identità, legittimava la volontà di potenza dello Stato nazionale e l’espansione coloniale. In questa divaricazione di orientamenti e di funzioni, si profilava il progressivo allontanamento dell’idea di nazione dai precedenti rapporti con gli ideali liberali e democratici verso una diversa posizione politica, con un profondo mutamento di contenuti.

Era un percorso complesso, non privo di scontri, travagli e contrasti, che non coglieva eguali risultati nei diversi Stati europei, dove si sviluppavano processi di democratizzazione e di integrazione, ma nascevano anche nuovi movimenti politici e orientamenti ideologici, ostili al parlamentarismo liberale oltre che al riformismo socialista, mentre si sviluppava una competizione tra gli Stati nazionali nel quadro di una politica imperialistica di potenza e dello sviluppo di una nuova fase espansiva del colonialismo. Sintomi di questo mutamento si manifestavano in diversi paesi europei.

Nella Terza Repubblica francese, si sviluppava una critica nazionalista alla tradizione rivoluzionaria e alla democrazia liberale, nella quale l’antisemitismo svolgeva un ruolo essenziale e contribuiva al tentativo di ridefinire l’identità nazionale fondandola sull’individuazione della differenza tra un Francese e un cittadino francese, basata, come ha spiegato Sternhell, su una distinzione cruciale: «da un lato, abbiamo una realtà storica, culturale, psicologica, ma anche biologica e fisiologica, dall’altra una pura finzione giuridica. Nessuno sarà mai in grado di privare un Francese della sua qualità di Francese; è invece molto semplice privare della qualità di cittadino francese, o di alcune delle prerogative che vi sono connesse, coloro che non appartengono alla famiglia». Questa precisazione consentiva l’identificazione del nemico: «L’ebreo simbolizza l’anti-nazione, è il negativo contro e tramite il quale il sentimento nazionale ha la possibilità di definirsi». Anche in Germania il concetto di nazione assumeva caratteri politici conservatori e illiberali e subiva un processo di radicalizzazione, lasciando penetrare al suo interno tendenze alla naturalizzazione e suggestioni razziste e antisemite, in nome della compattezza della comunità nazionale, in uno Stato indirizzato verso una politica di potenza.

All’inizio del Novecento nasceva in Italia, innanzi tutto sul piano letterario, un movimento nazionalista che nel 1910 si trasformava in associazione politica. Ostile al socialismo riformista e al liberalismo giolittiano, auspicava una nuova idea di nazione, organica e compatta, capace di comporre i conflitti interni per proiettare il paese nella gara imperialista, sul quale non mancava di esercitare un qualche fascino l’antisemitismo dell’Action Française. Era l’inizio del tramonto della nazione risorgimentale e l’avvio di un nuovo concetto mirante a trasformare lo Stato e a farne lo strumento di una politica estera più volitiva. Con queste sue varie contaminazioni politiche ed ideali, la nazione offriva nuove prospettive alle aspirazioni dei ceti borghesi, specie piccoli e medi, e proponeva le sue risposte alle novità e alle incertezze provocate dalla modernizzazione delle società europee. Le ragioni del successo del nazionalismo, a giudizio di George L. Mosse, stavano nella sua promessa di «un mondo felice e fiorente, al riparo dalla corsa precipitosa del tempo […]», rivolta a uomini e donne che «si sono serviti del nazionalismo allo scopo di dare un senso alle proprie vite. A partire dalla fine del secolo scorso in poi, tali esistenze furono vissute in una società sempre più complessa e impersonale, dove tutto sembrava in movimento.

Testi consultati:

- Chabod, F. L’idea di nazione. Milano: Einaudi, 2021;
- Maggiano, M. Il romanzo della nazione. Mialno: Feltrinelli, 2015;
- Renan, E. Che cos’è una nazione? Roma: Aquilone, 2010.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
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