Machiavelli moderno o postmoderno?
Che il pensiero di Machiavelli resista imperterrito all’usura del tempo e che anzi abbia fin qui accompagnato grandi trasformazioni compiutesi nel corso dell’età moderna è una cosa che è sotto gli occhi di tutti. La Rivoluzione francese ne rivitalizzò le teorie politiche, creando l’immagine di un Machiavelli amico del popolo che si sofferma a illustrare le nefandezze dei principi per l’utile dei sudditi che queste cose devono pure sapere. Per noi che ci interroghiamo sulla modernità è importante il fatto che Machiavelli non venisse considerato da chi si apprestava a varcare la soglia di quella che oggi chiamiamo l’età contemporanea un pensatore dell’Ancien Régime. L’aver oltrepassato indenne quel primo confine induce a chiedersi se, oltre che moderno, egli possa dirsi anche post-moderno. Fuori d’Italia Machiavelli è comunque oggi uno degli autori italiani più letti e ricercati e si può affermare che il Principe è stato tradotto più volte quasi in tutte le lingue. La questione se Machiavelli possa costituire un elemento di continuità tra moderno e post-moderno si pone quindi legittimamente, specie considerando che con Machiavelli si è all’inizio di un percorso che tende a valorizzare la razionalità, ma di essa non ha fatto un valore. Su questo punto vanno, secondo noi, osservate alcune cose. La prima è che la razionalità è uno degli aspetti cruciali di una tradizione moderna.
In secondo luogo ricordiamo come, nel nome di Machiavelli, si sia più volte sostenuta l’importanza di considerare l’imponderabile, cioè quel che sfugge alle previsioni ma che agisce all’interno della storia e che alcuni notano, altri no. Infine osserviamo che con Machiavelli si è all’inizio del delinearsi di un progetto, quello appunto della modernità, che sarebbe ingenuo ritenere trasmessosi nei secoli senza venire in qualche modo deformato. In questo senso il ritorno a Machiavelli ci sembra opportuno per chi, guardando al futuro, si ponga la questione di rintracciare il senso di un progetto morale, intellettuale, culturale forse ancora non del tutto attuato. In fondo la modernità, con la sua contraddittoria nostalgia dell’antico e l’impossibilità di mettere in parentesi il Medioevo che come età storica essa ha « inventato », consiste assai probabilmente in una congiuntura storica, una fase durata a lungo, in vista della realizzazione di un mondo diverso.
Attraverso Machiavelli il ruolo del pensatore politico si definisce nei fatti, rivendicandosi uno spazio di riflessione autonomo intorno agli avvenimenti politici; spazio che spesso è momento di verifica, interpretazione, critica, che, in forma di giudizio pacato o di esaltazione e celebrazione, si fa in margine all’operato di coloro i quali ricoprono incarichi politici. Ne risulta un’implicita professione di modestia, probabilmente più sincera di quanto per pregiudizio comune non appaia, nel caso in cui lo scrittore molto conceda al tono elogiativo dell’encomio, in vita e post mortem tributato al personaggio eccezionale alla cui ombra egli sembra porre innanzitutto sé stesso 4 . Ma tale professione di modestia è poi dubbia nel caso dello storico che voglia entrare nei meccanismi più segreti, indagare nelle stanze del potere, secondo una prospettiva che, comunque individuata, non esclude l’intuizione politica di una possibile sopravvalutazione che a questo ruolo, naturalmente secondario, possono tuttavia dare alcune situazioni storiche nuove. Machiavelli è il primo intellettuale a dialogare a distanza ravvicinata con gli uomini di potere e a tratti si direbbe che avesse piena consapevolezza del privilegio che gli proveniva dal conoscere i meccanismi necessari a condurre le proprie analisi, a formalizzarle, a divulgarle.
Non può tacersi a questo punto che la fortuna politica dell’uomo di intelletto che si interroga sulle ragioni della grandezza del saggio uomo di governo, cresce sensibilmente proprio a cominciare dall’epoca di Machiavelli. Probabilmente in larga parte ciò si deve al fatto che il Rinascimento è l’epoca in cui nasce quello che Herbert Marshall McLuhan (1998) chiama fin nel titolo di una sua celebre opera l’uomo tipografico, il quale compie la sua educazione attraverso la lettura di classici, ai quali facendo riferimento può stabilire una rete di contatti con gli intellettuali europei. Non a caso, nessun movimento di idee risulta meglio gestito del Rinascimento, politicamente sorretto da opportuni chiarimenti programmatici in base ai quali si segue un iter educativo che dà a chi lo compie la consapevolezza di un qualche diritto da rivendicare. Inoltre è credibile che l’esperienza condotta a contatto dell’ambiente di corte consentisse all’umanista di accedere ai meccanismi di regia dell’apparato di corte. In tal modo egli comprende finalmente la politicità insita in fatti privi di rapporto immediato con quella che volgarmente è la politica, vale a dire la somma delle preoccupazioni del principe. Alludiamo ai filtri di cui il signore si avvale nel rapporto con i sudditi e che vanno dagli uffici della Cancelleria, alle parate; dalle feste carnascialesche alla messa in scena degli spettacoli; dall’opera che commissiona all’artista al poema che celebra i fasti del principe stesso e del suo casato. Questo aspetto della realtà è indagato a tutto obiettivo dall’umanista che gioca in tutte queste operazioni un ruolo fondamentale. Tutto questo in fondo è il Rinascimento, di cui alcune opere, singolarmente brevi e penetranti, come per esempio L’elogio della follia di Erasmo e il Principe, costituiscono quelli che oggi si chiamerebbero dei manifesti. In fondo il Rinascimento è quel che si è rigenerato ogni volta che la modernità in esso implicita è stata nuovamente invocata come momento essenziale alla crescita della società civile. Quest’ultima ha di fatto riconosciuto in opere divulgate, conservate, tramandate dall’invenzione della stampa, i suoi fondamentali monumenti.
Se riflettiamo intorno a quella vera e propria damnatio memoriae di cui per secoli è stato oggetto il Principe, scopriamo che tutto ciò è legato indissolubilmente al bisogno da parte del politico di professione (il consigliere, il ministro della real casa) di formarsi a una letteratura che lo ponesse in condizione di svolgere il compito di tutore del principe, compito che grado a grado ottiene, promuovendosi di rango nelle mansioni politiche che è chiamato a svolgere. Il Principe mette un po’ troppo a nudo verità che è meglio celare, di fronte al rischio di un oscuramento della dignità regale che, con la Rivoluzione Francese, perderà ogni attributo di naturale grandezza. Non siamo del resto i primi a insinuare che l’attività di storico e storiografo sia da considerarsi nel caso di Machiavelli un esercizio all’ombra di quella passione politica che nutrì la vita dell’austero repubblicano. E’ nei saloni di Palazzo Vecchio che Machiavelli aveva individuato lo spazio per la discussione dei problemi relativi all’amministrazione di uno stato le cui dimensioni reali non superavano di molto i confini del comune fiorentino e che pertanto salvava la logica di un confronto « democratico » come oggi diciamo, e fondato sulla tutela delle libertà municipali e che allora erano artatamente ridotte ai maggiorenti della città, così a Firenze come in altri comuni italiani. Non devono perciò trarre in inganno certi salamelecchi ed effusioni del tutto rituali, con cui il Segretario della Repubblica Fiorentina si rivolge al duca Valentino. Rientrano negli obblighi sociali e Machiavelli mancherebbe di tatto e di intelligenza nel sottrarsi a un dovere di buona creanza. La stima che peraltro ha del personaggio politico non ha nulla a che fare con i cerimoniali d’obbligo. Ma poi è da chiedersi: l’insistere sul Valentino, su quel che avrebbe potuto realizzare e tuttavia non ha realizzato per un complesso di circostanze fortuite; il tornare a parlarne anche nel contesto di quella che resta la sua opera maggiore, il Principe, tutto ciò ha solo il significato di un omaggio?
E che senso mai avrebbe un tale omaggio a un defunto, ridondante, eccessivo nel suo zelo cavalleresco, in un’opera così agile, schematica, veloce ed essenziale quale è appunto il Principe? Vale inoltre la pena secondo noi interrogarsi più a fondo circa il significato di un’opera che, dedicata al Signore di Firenze, gli ricorda, sia pure di sfuggita, la grandezza di un personaggio che aveva macchiato le proprie mani del sangue di qualche suo parente: gli Orsini che il Valentino aveva mandato a morte erano cugini della moglie di Lorenzo il Magnifico, nonno del destinatario ufficiale dell’opera scritta da Machiavelli, e proprio il Magnifico aveva sposato Clarice Orsini, figlia di una sorella del cardinale Latino Orsini, padre di Paolo. Queste cose erano allora a tutti note in Italia. Non ci sentiamo di escludere da parte dello scrittore una qualche consapevolezza d’essere stato anche lui attore, sia pure del tutto casualmente, di fatti memorabili. Osserviamo il documento da lui redatto che è poi la prima fonte in certo modo autobiografica del suo incontro con il Valentino. La celebre descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini fu frutto di rimaneggiamenti successivi, quasi che nel racconto degli avvenimenti di quei giorni ci fosse qualcosa di insolito che l’autore scopre con sorpresa in sé oltre che nei fatti di cui è testimone. Il duca, per come la sua figura è in quell’opera tratteggiata da Machiavelli, è un personaggio che nel suo cammino travolge le persone che incontra. Ha l’affabilità cortese del principe quando al principe è consentito essere affabile in quanto deve dirimere questioni diplomatiche di grande interesse per sé e per i suoi progetti. E se qualcuno gli è di ostacolo, con molta freddezza il Valentino lo castiga. Machiavelli è per lui poco più che un nome. Eppure con messer Machiavelli conversa e ne sollecita, secondo quanto Machiavelli stesso riferisce, il parere. Segno di grande considerazione, ma anche di una certa volontà di gioco che un avversario forte si prende su chi sa essere meno agguerrito.
Sicuramente dunque l’incontro del Valentino con Machiavelli non è tale che ne possa immediatamente scaturire qualche valutazione o particolare apprezzamento da parte del Valentino o di altri sull’opera svolta dal personaggio inviato dalla Repubblica Fiorentina ad accogliere e fermare il duca, che non assalga Firenze, la quale è praticamente indifesa, almeno sul piano militare. Il compito di Machiavelli è reso più facile ma anche più delicato, vista la protezione che sulla città del Fiore ha posto il re di Francia Luigi XII col veto, che anche il Valentino non può ignorare, di assalirla. Si tratta di saggiare da un lato l’intelligenza, dall’altro la sete di potere del Valentino, che potrebbe anche solo differire il progetto di assalire Firenze. Anche su Machiavelli grava l’incertezza della capricciosa fortuna. Che cosa accadrebbe se Luigi XII dovesse all’improvviso venir meno? Quale freno interverrebbe a scongiurare un assedio del Valentino all’indifesa patria di Machiavelli? Se si valutano le ragioni che avrebbe avuto il duca di scagliarsi su Firenze, si comprendono le legittime preoccupazioni del Segretario della Repubblica Fiorentina.
Presa Firenze, il duca si sarebbe impossessato di una posizione strategica di sicuro valore, senza considerare le risorse che avrebbe potuto impiegare per condurre a termine la sua campagna militare nel resto d’Italia. Per poco che si rifletta sugli strumenti culturali di cui Machiavelli dispone per tener testa a un interlocutore che potrebbe decidere di essergli nemico, non si può neanche lontanamente concludere che egli si avvalesse di altro che della sua personale sagacia, del suo spirito e di un sapere di vita. Non vogliamo fare di Machiavelli il campione di ragioni che l’età moderna si è, in quanto moderna, voluta lasciare alle spalle. A noi non sfugge che lo stesso baconianesimo, visto come punto di partenza di una mentalità moderna e scientifica, in quanto sperimentale e razionale, si radica anch’esso in una cultura pre-scientifica8 . Pensiamo però che Machiavelli fosse figlio di una cultura in cui l’educazione del Principe è arte sottile, fatta di sapienza segreta che consiste nel riconoscere, come vedevamo, l’eccezionalità di una condizione di nascita e nello spingere una particolare natura, segnata da un innegabile privilegio della sorte, a manifestare nel modo più compiuto l’ineluttabilità di un destino guidato da una stella favorevole. Nell’età di Machiavelli abbondano quegli astrologi di corte, dei quali Guicciardini dice: « Quanto sono più felici gli astrologi degli altri uomini! Quelli, dicendo tra cento bugie una verità, acquistano fede in modo che è creduto loro el falso; questi, dicendo tra molte verità una bugia, la perdono in modo che non è più creduto loro el vero » (I ricordi, aforisma 57).
Le astuzie meschine con cui il furbo irretisce l’ingenuo non caratterizzano il principe di Machiavelli che, sebbene abbia i suoi vizi, tuttavia ha sempre una qualche magnanimità, anche quando colpisce il nemico senza perdonarlo. Quel che in Machiavelli fa da contraltare alla fortuna è, non a caso, la virtù. Di questo termine, secondo noi, si è sottolineata un po’ troppo l’ascendenza dotta, latina, dimenticandosi che nell’età medievale la virtus, come è intesa dai vari Lullo e dagli alchimisti è qualità intrinseca della cosa, facoltà che serve a descrivere la cosa in un suo tratto costitutivo e caratteristico. Secondo noi aveva pienamente ragione Oreste Tommasini (1883-1911, II : 39-41 ) nel sostenere che « né altro indica la parola virtù del politico fiorentino che quello che Galeno e i medici solevano designare col nome di virtus. Chi questo non ravvisa - proseguiva enfaticamente Tommasini - rischia di prendere ogni maniera di abbagli nel giudicare il sistema filosofico di lui. Chi negli umori del corpo sociale, di cui egli osserva a ogni piè sospinto, le aggregazioni, le alterazioni, le purgazioni, non riconosce analogie e allusioni frequenti e palesi ad aforismi galenici, non giungerà facilmente a rendersi esatta ragione della genesi dei pensieri di esso».
La cultura medica, che è filosofica oltre che magica, è viva ancora per tutto il Rinascimento. Quanto all’uso del termine virtù nel senso detto, si pensi anche alla virtù d’erbe o d’arte maga di cui parla Petrarca (« I begli occhi ond'i' fui percosso in guisa / ch'e' medesmi porian saldar la piaga, / et non già vertú d'erbe, o d'arte maga » (Canzoniere, 75). Riferita all’uomo la virtù non è dunque, machiavellicamente, eroismo e, se aveva ragione Luigi Russo (1972 : 17) a sostenere che in Machiavelli la virtù è virtù individuale, bisogna anche ricordare che tale virtù non è la virtù morale che appartiene all’uomo « virtuoso », ma la forza della natura che opera nell’uomo e che l’uomo deve saper ben governare. « La nozione di virtù - suggerisce Donato Romano - compendia risorse diverse, che, riunite, di norma attraggono la fortuna: tra esse, la capacità di interpretare uomini e situazioni, l’ingegno creativo, la razionalità, il coraggio, il realismo, la prontezza. In politica chi è irresoluto finisce travolto dagli eventi, mentre chi ha virtù sa prendere decisioni tempestive, mutando rotta e atteggiamenti non appena le circostanze lo richiedano».
Machiavelli troppo spesso è accostato a quanti dopo di lui si sono fatti promotori di una grande e importante rivoluzione che, sul piano della vicenda culturale europea, ha portato alla nascita della moderna scienza sperimentale. La verità è che Machiavelli ha perfino un linguaggio da indovino. I suoi distinguo, le sue catalogazioni, il suo ragionare sui remedii, i suoi consigli intorno a ciò da cui un principe deve guardarsi, sono luoghi di una retorica da oroscopo, di cui è esempio perfino la dedicatoria del Principe, là dove lo scrittore sostiene di avere « una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique », « con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate » (« Al Magnifico Lorenzo de’ Medici », dedicatoria del Principe, § 1). Non vogliamo con questo dire che Machiavelli credesse a cose come gli oroscopi. Abbiamo già visto come l’intelligenza fosse per lui, prima ancora che capacità di seguire un ragionamento, un sapere piuttosto prevedere effetti, deducendoli da un’osservazione attenta, dove l’intuito conta più della riflessione. Ora, mentre siamo certi del guadagno derivante dall’aver liquidato l’aspetto cialtronesco e perfino burlesco di una cultura che aveva sopravvalutato l’attendibilità di certe forme di sapere, non siamo d’accordo circa l’ ostinazione a trascurarne gli aspetti meno banali. Tali sono per noi quelli legati al potenziamento e all’educazione di doti personali che vanno dalle capacità mnemoniche all’affinamento dei sensi. Ci pare ovvio ad esempio che l’esercizio del disegno comporti una maggiore sensibilità visiva e induca chi ad esso si dedica ad osservare le cose con occhio più attento. E venendo ad arti volte ad affinare l’abilità del politico, sembra che la scherma, praticata dal principe quasi per dovere, abbia sempre avuto un ruolo nell’educazione del politico di razza. Questo ruolo le fu riconosciuto perfino nel tardo Ottocento, quando il Positivismo trionfava nelle scuole e nelle aule universitarie.
Ora noi vediamo in Machiavelli più che il campione di una cultura che guarda allo sperimentalismo come prossimo punto d’approdo della ricerca, colui che nel dissacrare la leggenda di un sapere magico, ha sollevato di un po’ il velo su certi segreti di un tale sapere. Esercizio, disciplina, applicazione ma anche coraggio, pongono l’uomo in condizione di aver ragione di un presunto cieco destino al quale per credulità popolare sarebbe legata l’esistenza degli uomini. E’ un fatto che mentre la scienza ha sempre dovuto avvolgersi nel mantello protettivo del politico, mecenate e protettore, il politico ha probabilmente finto di affidarsi alla scienza interrogando giuristi, economisti e sociologi per poi compiere i suoi passi indipendentemente dal loro giudizio, quando non abbia concesso a giuristi, economisti e sociologi compiacenti una patente di autorevolezza, conseguente a una certa loro disponibilità a giustificare le scelte già compiute dal politico. In un celebre passo del Principe leggiamo: « E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo sieno governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudentia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno […] Nondimanco […] iudico poter esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi…» (Il Principe, XXV, « Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere » § 1). La scienza politica, dunque, non consiste nell’individuare le leggi che determinano naturalmente il fenomeno. Essa è semmai la scienza di come gli errori possano, più che correggersi, sfruttarsi per l’utile di chi li compie. In questo la scienza politica ci pare essere la scienza di domani, fondata su una sorta di epistemologia dell’errore che non escluderemmo compatibile con la postmodernità.
Testi consultati:
- BURCKARDT Jakob (1973) L’età del rinascimento in Italia, Parte prima. Firenze: Sansoni. 2022;
- DE SANCTIS Francesco (1963) La giovinezza. Torino: Einaudi, 2021;
- LYOTARD Jean-François (1987) La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. it. Milano: Feltrinelli, 2000;
- MCLUHAN Herbert Marshall La galassia Gutenberg: la nascita dell’uomo tipografico. trad. it. Roma: Armando, 1988;
- ROSSI Paolo (1964) Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza. Torino: Einaudi, 2012;
- MACHIAVELLI Niccolò La congiura de la Magione (a cura di Ludovico Fulci) Roma: Biblink, 2001;
- RUSSO Luigi (1972) Machiavelli Bari: Laterza, 2013;
- SICILIANO Enzo (1971) Moravia Milano: Longanesi, 2009;.
- SKINNER Quentin Machiavelli trad. it. Bologna; Il Mulino, 1999;
- TOMMASINI Oreste (1883-1911) La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione con il Machiavellismo vol. II, Torino: Loescher, 2015
Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
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