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Il piacere

Il piacere è un sentimento o un esperienza che induce l’uomo in uno stato di benessere, in una condizione positiva. Anche un gesto semplice e banale può essere espressione del piacere, purché provochi felicità nell’ individuo. Il piacere agisce a livello psicologico: pertanto siamo in grado di distinguere ciò che è bello e gratificante, da ogni cosa che provoca dolore e sofferenza. Non a caso si tende a ripetere esperienze piacevoli, piuttosto che esperienze noiose e insignificanti, ma quando la ricerca del piacere diventa ossessiva, l’ uomo finisce per diventarne dipendente.

Per piacere cinetico si intende il piacere transeunte, che dura per un istante e lascia poi l’uomo più insoddisfatto di prima. Sono piaceri cinetici quelli legati al corpo, alla soddisfazione dei sensi.

Il piacere catastematico è invece durevole, e consta della capacità di sapersi accontentare della propria vita, di godersi ogni momento come se fosse l’ultimo, senza preoccupazioni per l’avvenire. La condotta, quindi, deve essere improntata verso una grande moderazione: meno si possiede, meno si teme di perdere. Epicuro paragona la vita ad un banchetto, dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Il convitato saggio non si abbuffa, non attende le portate più raffinate, ma sa accontentarsi di quello che ha avuto ed è pronto ad andarsene appena sarà il momento, senza alcun rimorso. Il piacere catastematico è profondamente legato ai concetti di atarassia e aponia.

Importante è quindi l’amicizia, intesa come reciproca solidarietà tra coloro che cercano insieme la serena felicità. Per quanto riguarda la societàegli riconosce l’utilità delle leggi, che vanno rispettate poiché calpestandole non si può avere la certezza dell’impunità quindi rimarrebbe il timore di un castigo che turberebbe la serenità per sempre. L’uomo dovrà quindi essere contento del vivere nascondendosi serenamente (è la concezione epicurea del “vivere nascostamente” o “vivi di nascosto”, in greco λάθε βιώσας)

Il disimpegno degli epicurei, che teorizzano una vita serena e ritirata, congiunto ad una distorta interpretazione del termine “piacere”, ha portato nei secoli ad una visione distorta dell’epicureismo, spesso associato all’edonismo con cui nulla ha a che fare. La filosofia epicurea si distingue al contrario per una notevole carica illuministica e morale, insegna a rifiutare ogni superstizione o pregiudizio in una serena accettazione dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

La teoria del piacere viene concepita ed elaborata all’interno della filosofia leopardiana. Il pensiero filosofico di Leopardi, infatti, muove dalla riflessione sulla condizione dell’esistenza umana che per lui è di costante infelicità. L’uomo, in quanto essere finito, è infelice perché la felicità è identificata solo ed esclusivamente con il piacere sensibile e materiale che è infinito. 

L’individuo aspira sempre a questo tipo di piacere illimitato che in realtà non raggiunge mai e questo genera in lui un’insoddisfazione continua e da tale condizione deriva il senso di nullità di tutte le cose.  

La teoria del piacere è una concezione filosofica che viene elaborata da Leopardi nel corso della sua vita; la maggior parte della sua teorizzazione viene postulata nello Zibaldone e da molti viene collegata alla prima fase del pessimismo storico definito anche individuale-personale o psicologico. Lo Zibaldone non è solo l’opera ispiratrice dei Canti e delle Operette morali «ma è 
il documento più prezioso dello svolgimento del pensiero leopardiano, anche perché […] i temi si esplicano con più libera immediatezza, ripresi a volte con una insistenza quasi prolissa […]per rilevare di una intuizione le sfumature più lievi». L’elaborazione della teoria, che è il nucleo della visione pessimistica, scaturisce dalla  riflessione sull’infelicità umana, lo stesso punto di partenza all’origine del suo pensiero. È frutto di un ragionamento filosofico che muove dalla critica delle passioni che spingono l’uomo alla ricerca di un desiderio irrealizzabile. La teoria del piacere consiste nel fatto che l’amor proprio porta l’individuo a una richiesta costante di piacere infinito sia per intensità che per estensione ma, dal momento che tale richiesta non potrà mai essere soddisfatta interamente, l’uomo, anche nel momento di maggior piacere, continuerà costantemente a sentirsi insoddisfatto dal desiderio non colmato e dal bisogno di altro piacere. 

Nella storia dell’arte pensiamo a quadri come «La nascita di Venere» di Botticelli e «La Danza» di Matisse o «I tre musici» di Picasso. Cosa accomuna questi tre momenti della storia della civiltà visiva dell’Occidente? La necessità di mettere in scena il bisogno di armonia: la necessità di pensare l’opera d’arte non come fedele trascrizione dell’esistente, ma come artificio sublime, lirica ardita, abile gioco di evocazioni, esercizio teso ad abbandonare le «pesantezze» del presente, per proiettarsi verso dimensioni ulteriori. Pur seguendo sentieri diversi, Botticelli, Matisse e Picasso condividono l’idea secondo cui la pittura debba «musicalizzarsi»: debba riuscire, cioè, ad acquistare la medesima carica emozionale della musica; conquistare un’imprevista leggerezza, conducendo chi osserva verso regioni inesplorate. Nei tre dipinti si rinvia a un piacere mentale, intellettuale, di matrice spiritualistica. Non il «principio» cognitivo posto alla base della nostra esistenza affettiva e sociale (di cui ha parlato Freud). Ma una «qualità» poetica, intima, che trasporta verso i territori del fantastico, dell’immaginario, del simbolico. Questa idea viene raffigurata seguendo modalità linguistiche diverse. Eppure, i tre quadri potrebbero essere considerati anche come i fotogrammi di una sorta di film durato quattro secoli, dedicato alla rappresentazione del «volto della Bellezza». 

Bibliografia:

- G. D’Annunzio, Il piacere. Milano: Bur, 2000;
- G. Leopardi, Lo zibaldone. Miano: Monadori, 1998;
- C. Ricci e S. Salinari, Storia della lettertaura italiana. Firenze Giunti, 1996;

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
prof_biblio_lodesal@yahoo.com