L’Individualismo Assoluto della modernità
Si dice che l’uomo moderno è individualista per eccellenza, e che tutta la società moderna si basa sull’individualismo; ed è sostanzialmente vero. Bisogna però precisare che non si tratta di “un“ individualismo qualsiasi, di un individualismo più o meno “normale”, cioè storicamente dato, ma di un individualismo radicale, quasi di una nuova religione: di un “individualismo assoluto”.
Mai nella storia s’era visto alcunché di simile. Individui portati alla solitudine, all’introspezione, al distacco dai propri simili, probabilmente ve ne sono sempre stati (anche se la cultura moderna favorisce il proliferare di questo tipo umano); ma si trattava pur sempre di un individualismo psicologico, capace di coesistere con la società nel suo insieme e di non recarle danno, semmai di stimolarla in senso positivo, perché fra tali individui vi sono, il più delle volte, quelli maggiormente creativi.
L’individualismo moderno, invece, è un individualismo ideologico, teorizzato da filosofi come Locke e Rousseau e inserito nella costituzione delle democrazie, a partire da quella degli Stati Uniti d’America: un individualismo virulento, intollerante, tanto astratto quanto velleitario, che pretende di dettar legge alla società, anzi, che concepisce la società in funzione di esso, così che quella diviene semplicemente lo sfondo sul quale l’individuo possa agire, mediante la quale egli possa affermarsi, mentre il compito dello Stato e delle leggi si riduce semplicemente quello di limitare, controllare, imbrigliare la società a favore dei “sacri” diritti individuali.
Il modo di produzione capitalistico ha aggiunto a tale individualismo un ulteriore elemento di aggressività brutale e di spietatezza: non ha alcuna importanza se, fuori della porta di casa mia, un povero disgraziato sta morendo di fame o di freddo: l’importante è che la mia casa, la mia fabbrica, i miei beni, siano adeguatamente tutelati contro di lui e contro le pretese dello Stato stesso (che, essendo una creazione sociale, è pur sempre un male, anche se il minor male possibile); e, se non lo sono, ne deriva automaticamente il mio diritto a difenderli da me stesso, armi alla mano, magari sparando e colpendo a morte un poveraccio, introdottisi nel mio giardino per rubarvi quattro mele.
L’individualismo assoluto è, dunque, in buona parte il frutto del capitalismo assoluto, nel quale il lavoro diventa una merce come qualsiasi altra e in cui chi possiede tale merce può farne l’uso che crede; o meglio, in cui il lavoro diviene una merce sottoposta non tanto all’arbitrio del singolo capitalista “cattivo”, ma a tutto un sistema di sfruttamento e di alienazione, sostanzialmente impersonale, dominato dalle banche e dalla finanza e alimentato continuamente dal cosiddetto progresso tecnologico (non per nulla, agli esordi della Rivoluzione industriale, il luddismo tentò di contrastare una tecnica messa interamente al servizio del profitto e tale da ridurre il lavoratore in condizioni di assoluta indigenza e disperazione).
Uno degli specchi nei quali tale situazione si riflette con maggiore evidenza è la letteratura, e più precisamente la narrativa di carattere popolare (e diciamo “popolare” non necessariamente in senso spregiativo: così come “popolare”, ad esempio, è «Pinocchio», o come lo fu e volle esserlo «I Promessi Sposi»; altro discorso andrebbe fatto per i vari «Il nome della rosa» o «Il codice Da Vinci», anche se Umberto Eco rifiutava con sdegno, ma secondo noi a torto, l’accostamento al romanzaccio di Dan Brown).
Sono preziose le osservazioni formulate dal critico letterario inglese e storico della letteratura Ian Watt (1917-1999) in un saggio divenuto ormai un classico, anche se, all’inizio, accolto assai poco favorevolmente dalla cultura accademica: «L’interesse del romanzo per la vita quotidiana per le persone ordinarie sembra dipendere da due importanti condizioni generali: la società deve valutare ogni singolo individuo abbastanza da considerarlo un soggetto degno di letteratura seria e deve esistere una varietà sufficiente di idee e di azioni tra le persone comuni perché un racconto dettagliato che le riguardi possa interessare persone altrettanto ordinarie, cioè i lettori di romanzi. È probabile che nessuna di queste due condizioni per l’esistenza del romanzo si sia verificata se non abbastanza recentemente perché ambedue dipendono da sorgere di una società caratterizzata da quel vasto complesso di fattori interdipendenti che chiamiamo “individualismo”. Perfino la parola è recente, essendo apparsa verso la metà del diciannovesimo secolo. In tutte le epoche e tutte le società, senza dubbio, alcune persone sono state “individualiste” nel senso di egocentriche, uniche o indipendenti in modo notevole dalle idee o costumi correnti; ma il concetto di individualismo implica assai di più. Implica una intera società retta principalmente dall’dea dell’intrinseca indipendenza di ogni individuo dagli altri individui e da quel complesso di modelli di pensiero e di azione che si denota col termine “tradizione”, una forza che è sempre sociale e non individuale.
L’esistenza di una tale società, a sua volta, presuppone uno speciale tipo di organizzazione economica e politica e un’appropriata ideologia. Più specificamente, un’organizzazione economica e politica che permetta ai suoi membri un ampio ventaglio di scelte per le loro azioni e una ideologia basata principalmente, non sul rispetto per la tradizione, ma sull’autonomia dell’individuo, indifferentemente dalla sua condizione sociale e dalle sue capacità personali.
Vi è un notevole accordo sul fatto che la società moderna è, per questi aspetti, estremamente individualista e che, delle numerose cause storiche della sua nascita, due sono soprattutto importanti: il sorgere del moderno capitalismo industriale e la diffusione del protestantesimo, specialmente nelle sue forme calvinista o puritana. La società nasce per trovare un punto di equilibrio fra i bisogni dell’individuo e quelli della comunità, mentre la società moderna si è andata sempre più configurando come una dittatura del primo sulla seconda.
Al tempo stesso, la “logica” democraticista ha diffuso la filosofia dell’individualismo assoluto presso strati sempre più ampi della popolazione, fino a includere, teoricamente, tutti, compresi coloro i quali non appartengono a quella determinata società. La schizofrenia dell’uomo moderno, divaricato fra opposte spinte e tendenze («quel doppio uomo che è in me», dice messer Francesco Petrarca, il primo campione e vessillifero di tale nuovo tipo umano), è, al tempo stesso, causa ed effetto di questa inestricabile contraddizione, di questa radicale impossibilità: la nascita di una società nella quale tutti, ma proprio tutti, si sentono unici e originali, anche se appiattiti sulle mode più effimere e proni al conformismo più banale, anzi, appunto per tale assoggettamento alle mode e per tale abietto conformismo.
L’individualismo psicologico non è affatto un male in sé, almeno in teoria; il male nasce quando si afferma un virulento individualismo ideologico, che pretende di rifare il mondo sulla misura di qualunque imbecille che si crede un genio, di qualunque egoista che si crede una bella persona, di qualunque prepotente che si sente legittimato a calpestare il prossimo: tutti costoro, anzi, son convinti che la scopo della società sia quello di incoraggiare, proteggere e alimentare la stupidità, l’egoismo e la prepotenza del singolo individuo, specialmente se ricco e potente. I sentimenti, le passioni, l’affettività e la stessa sessualità soggiacciono interamente a questa logica. Lo si vede bene, ad esempio, in un film come «Nove settimane e mezzo», di Adrian Lyne (un film peraltro mediocre, sotto ogni punto di vista: ed è interessante che una certa critica “progressista” e di sinistra lo abbia accolto, nel non lontanissimo 1986, con un certo favore, scorgendovi chi sa mai quale critica implicita al capitalismo): nemmeno una profonda attrazione fra uomo e donna può resistere alle spinte distruttive dell’individualismo assoluto, perché quest’ultimo tende a ridurre la persona a oggetto, a cosa, cioè a corpo: ed è un gioco che, per quanto possa risultare intrigante all’inizio, almeno per un certo tipo di uomini e donne, alla lunga finisce per stancare e per generare un senso di amara e sconfortata sazietà, una vera sindrome di angoscia. L’individualismo assoluto, inoltre, mina alla base - perché la colpisce al cuore -, la società fondamentale, sulla quale si basano tutte le altre società: la famiglia. Esso crea un nuovo tipo umano, in costante competizione e rivalità con il proprio compagno o la propria compagna, con i propri genitori e con i propri figli: una vera e propria guerra di tutti contro tutti. Ma non è questo il volto “normale” della famiglia, come hanno amato dipingerlo scrittori e registi degli anni ruggenti della pseudo-contestazione (che era, in realtà, profondamente funzionale al sistema che essa pretendeva di criticare). È solo il volto di quella micro-società, patologica e intossicata, che è diventata la famiglia moderna, asservita alle logica distruttive dell’Individualismo Assoluto.
Testo consultato:
Storia del pensiero. Firenze: Utet, 2006
Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
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