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Cosa intendiamo per diritto?

Se si chiede ad un medico che cosa sia la “vita”, o la “salute”, è probabile che esiti molto a rispondere, che divaghi o si rifugi in una definizione “tecnica”, assai poco impegnativa o per nulla chiara. Così accade se si chiede ad un giurista cosa sia il “diritto”. Il diritto è ciò di cui il giurista vive, con cui opera quotidianamente, di cui è un tecnico più o meno eccellente, più o meno specialista: ma è assai probabile che non si sia mai interrogato sulla sua essenza, non ne abbia mai cercato una definizione appagante. Per operare ogni giorno, il medico, come il giurista, si può accontentare di definizioni minime dell’oggetto della sua professione: il problema di indagare ulteriormente è lasciato ad altri. Il giurista lo delega alla Filosofia del diritto e procede tranquillamente con le sue definizioni “minimaliste”. Inizierebbe osservando che il termine “diritto” viene impiegato, nel linguaggio tecnico dei giuristi, in almeno due significati diversi: in senso soggettivo, esso indica una pretesa (in questo senso si dice usualmente “io ho il diritto di …”, oppure “è un mio diritto!”); invece, in senso oggettivo, “diritto” indica un insieme di norme giuridiche, ossia un ordinamento giuridico (in questo senso si parla comunemente di “diritto civile” o di “diritto tedesco”). Naturalmente, tra i due significati vi è una forte interdipendenza: non ha senso che io pronunci la fatidica frase “è mio diritto”, usando “diritto” in senso soggettivo, se non ho in mente che quella mia pretesa trova riscontro in qualche norma giuridica che me la riconosca e mi dia gli strumenti per tutelarla. E, d’altra parte, è fuori dalla nostra immaginazione un “diritto”, nel senso di un ordinamento giuridico, che non abbia come suo principale scopo assegnare i “diritti”, in senso soggettivo, e apprestare gli strumenti per la loro tutela.

Definire il “diritto” (in senso oggettivo) come un insieme di norme giuridiche non risolve affatto il problema, ma lo sposta sulla definizione di “norma giuridica”. Noi siamo immersi in un discreto numero di “insiemi di norme”, ossia di “ordinamenti”: lo siamo come cittadini europei, cittadini italiani, residenti in una certa Regione e in un certo Comune, fedeli di una qualche religione, soci di un certo circolo, appartenenti ad una società sportiva o ad un club di tifosi, iscritti ad un partito o ad un sindacato, componenti di una famiglia e, sebbene forse inconsapevoli, membri di un gruppo di amici o di conoscenti, anch’essi, come tutte le realtà appena citate, organizzati secondo un “codice” di regole di comportamento più o meno esplicite. Il diritto è lo strumento con cui la vita sociale si organizza al livello più embrionale come a quello più elevato (questa affermazione è resa di solito con l’abusato broccardo – questo è il nome che si usa dare alle antiche massime giuridiche – ubisocietasibijus). Ogni nostro comportamento può essere giudicato secondo le regole di ciascun ordinamento, e non è detto che le regole siano compatibili e i giudizi coincidenti. Prendiamo il caso di Anna, che decide di andare a vivere con il suo ragazzo. La sua scelta – se è maggiorenne – è indifferente per lo Stato, che le riconosce la libertà di decidere e, anzi, le garantisce gli strumenti per difenderla: Anna si appresta a dare luogo ad una “famiglia di fatto” che, nel nostro ordinamento, non solo è lecita, ma è anche non del tutto priva di garanzie giuridiche. Ma per la sua famiglia no: per la famiglia, la scelta di Anna è inaccettabile ed è senz’altro condannata. Così anche per il circolo parrocchiale che Anna frequenta: anzi, questo suo comportamento le costa caro, la perdita del suo lavoro, come insegnante in una scuola materna cattolica. Per il Comune il comportamento di Anna non solo è lecito, ma, dando inizio ad un nuovo nucleo familiare, può essere il presupposto per concedere gli aiuti finanziari previsti in un apposito programma sociale di sostegno delle “giovani famiglie” a basso reddito. Le amiche invece “rompono” i rapporti, perché Anna ha compiuto questo passo senza consultarle (e lo ha fatto perché sa che il suo ragazzo non è “gradito”). Nella sua società di pallavolo invece sono tutti felici, perché il ragazzo gioca in serie “A”, ecc. Come si vede, la povera Anna si trova nei pasticci, perché la sua decisione fa scattare divieti, obblighi, premi, sanzioni ispirati da valutazioni diverse compiute da ognuno dei “suoi” ordinamenti. Con quali conseguenze? Il discorso delle conseguenze è interessante e consente di fare qualche passo avanti. L’ordinamento familiare contiene una norma, ossia una regola di comportamento, che Anna ha violato, e che può suonare più o meno così: “da questa casa le ragazze se ne escono solo con l’anello al dito!”. Ma la violazione di questa regola che cosa può comportare? La sanzione massima è l’espulsione: “vattene da questa casa!”. Non diversamente reagiranno il circolo parrocchiale, la chiesa, la scuola, le amiche e le amiche della mamma: solo di espulsione (di “radiazione”, di “scomunica”, di “esclusione”, che poi sono la stessa cosa) si può trattare. Questa è la sanzione massima che possono minacciare gli ordinamenti di cui Anna fa parte: tutti, salvo uno, lo Stato. In altri tempi non avremmo ragionato così. La Chiesa cattolica, per dirne una, non limitava le sue sanzioni alla scomunica, come streghe ed eretici ben sanno: il fuoco era la via dell’espiazione e della purificazione. Anche le famiglie apoteri di correzione nei confronti dei figli snaturati. E non ragioneremmo così neppure oggi, se vivessimo in altre parti del mondo, per esempio dove una certa interpretazione della legge coranica funge da legge penale. Il che significa che i fenomeni giuridici, ciò che noi chiamiamo “diritto”, sono qualcosa di fortemente legato alle coordinate geografiche e storiche. Nelle nostre coordinate, il diritto dello Stato si è differenziato dagli altri ordinamenti giuridici ed ha ottenuto un risultato formidabile: il monopolio della forza coercitiva. Il nostro ordinamento statuale riconosce e garantisce le “formazioni sociali”, ossia gli altri ordinamenti che si formano nella società: ma solo il diritto statuale può prevedere, come sanzione alla propria violazione, l’uso della coercizione fisica, cioè l’arresto e il carcere; chiunque altro intendesse imporre con la forza il rispetto delle proprie regole compirebbe un reato, cioè una violazione del diritto dello Stato, con conseguente sanzione coercitiva.

Tutte le definizioni sono convenzionali, tanto più lo sono quelle di “diritto”. Oggi, il giurista a cui chiedessimo di definirci il “diritto” non esiterebbe a dirci che ciò che chiamiamo “diritto” è l’insieme delle regole poste dallo Stato, e fornite quindi della “sua” sanzione, la coercizione. A ciò corrisponde la stragrande parte della sua esperienza professionale. Ed in effetti le materie che si studiano nelle Facoltà di giurisprudenza, salvo quelle storiche o filosofiche, sono tutte attinenti a sottoinsiemi di norme poste dallo Stato (diritto civile, penale, amministrativo, processuale, commerciale, ecc.) o da soggetti in qualche modo derivati dallo Stato (il diritto internazionale e quello dell’Unione europea, da un lato, e il diritto regionale, dall’altro): l’unica eccezione è forse il Diritto canonico, che studia l’insieme delle regole poste dalla Chiesa cattolica. Il “diritto” posto dalle altre istituzioni sociali, dalla famiglia alle associazioni, dai partiti alle società, non ci appare fatto di “norme giuridiche”, se non laddove sia il diritto dello Stato a richiamarlo e riconoscerlo come “diritto” da applicare (per esempio, i rinvii che gli artt. 2363 ss. cod. civ. fanno allo statuto della società). Esse sembrano piuttosto norme sociali, che saranno sì anch’esse sanzionate, ma con sanzioni, appunto, sociali, che culminano con l’espulsione dal gruppo e non possono andare oltre. La percezione comune è questa: da un lato, sta il diritto “vero”, quello dello Stato (o derivato dallo Stato), fatto di “vere” norme giuridiche, il cui rispetto è garantito dal ricorso alla “forza pubblica”; dall’altro, stanno i fenomeni pre- o paragiuridici, costituiti da norme non propriamente giuridiche, ma sociali, come squisitamente sociali sono le reazioni che si producono quando siano violate. Se uno non cede il passo ad una signora, non viene prelevato dai carabinieri e sbattuto in carcere: al massimo farà la figura del cafone e verrà ignorato dalla “società”. Ai tempi di Balzac essere esclusi dalla “società” significava la morte civile, e forse anche il tracollo economico. Oggi non significa molto: la reazione sociale è fiacca e nessuno più considera “giuridiche” le regole di bon ton. Infatti, chi cede più il passo alle signore o apre loro la porta dell’auto? Ma naturalmente, se ogni concetto di diritto è legato alle coordinate storiche e geografiche, lo è anche il nostro concetto di diritto, imperniato sullo Stato. È un concetto caduco, destinato ad essere superato: e già oggi i segni della decadenza sono evidenti, di fronte all’integrazione europea, da un lato, e, dall’altro, di fronte ad un processo di globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni che sta mostrando tutti i limiti di una regolazione “giuridica” legata agli Stati. Il bombardamento dell’Afghanistan o dell’Iraq per ripulirli dai “terroristi” è forse una sanzione per la violazione di una regola giuridica? E se sì, una regola giuridica di quale diritto? I segni di una trasformazione della nostra stessa esperienza del diritto non sono pochi e appaiono in fenomeni di grande importanza. Perciò, a questi nuovi fenomeni si accennerà spesso nel corso di questo manuale: ciò non toglie però che esso resterà nell’alveo della tradizione nel considerare come “diritto” solo quelle regole per la cui violazione si possa adire un giudice e invocare una sanzione. 

Il termine “diritto”, oltre a indicare cose diverse se usato in senso “soggettivo” o in senso “oggettivo”, indica una cosa ancora diversa se usato per designare una “materia” di studio. Qui si sta introducendo un manuale di “diritto” costituzionale, inteso certo non come “pretesa”, né come “insieme di norme”, ma come disciplina di studio: altrettanto si fa nei libri di diritto penale, civile, o di “diritto” romano. Anche questo uso del termine “diritto” è lecito e tecnicamente corretto, ed anch’esso ha relazioni strette con la nozione di “diritto” in senso oggettivo. Chi insegna, per esempio, diritto penale o diritto commerciale ha come riferimento un insieme di regole di comportamento poste dallo Stato e “garantite” da sanzione. Ma per lui il diritto penale è molto di più, perché comprende un “sistema” di lettura di quelle regole: queste vengono esaminate, interpretate, legate l’una all’altra da rapporti di coerenza e di mutua dipendenza; vengono scoperti principi comuni che le saldano insieme, attorno a determinati interessi o valori di cui ognuna di esse è espressione ed attuazione; e questi princìpi comuni a loro volta si saldano con altri princìpi e possono suggerire l’esistenza di altre regole che, magari, il legislatore non ha mai scritto, ma non sono che la logica espansione del principio stesso. Insomma il diritto è assai di più dell’insieme delle regole che lo Stato ha posto, perché è anche l’insieme delle interpretazioni che di esse hanno dato i giudici chiamati ad applicarle nei casi specifici (la c.d. “giurisprudenza”) e gli studiosi che si sono sforzati di ricreare attorno ad esse un sistema coerente (la c.d. “dottrina”). E tutto ciò è altrettanto “diritto” di quanto lo siano le regole poste dallo Stato; e bene lo sa anche il nostro giurista pratico, a cui abbiamo richiesto all’inizio che cosa significhi la parola “diritto”: mai si avventurerebbe ad invocare l’applicazione di una norma giuridica senza prima guardare a come essa sia stata in precedenza interpretata da dottrina e giurisprudenza. In fondo, il “diritto” inteso come materia non è cosa troppo diversa dal “diritto” inteso come insieme di regole. Tutto infatti gira attorno all’esigenza di elaborare una norma che regoli un certo comportamento: semplicemente si constata che per assolvere a questo compito non basta “leggere” ciò che il legislatore ha scritto, ma bisogna compiere operazioni assai più complesse. Ma se noi chiedessimo cos’è il “diritto”, mettiamo, ad un sociologo – non ad un sociologo generico, ma proprio ad un cultore della Sociologia del diritto – rischieremmo di ricevere una risposta spiazzante. Ci potrebbe dire che, dal suo punto di vista, il “diritto” non è che una delle possibili tecniche di controllo sociale, attraverso le quali un certo soggetto (che potrebbe essere l’apparato politico che governa, ma anche – perché no? – quella inquietante casta sacerdotale che sono i giuristi) cerca di condizionare e guidare i comportamenti degli individui, risolvendo i conflitti che sorgono tra essi. Per lui quello che si svolge nelle Facoltà giuridiche potrebbe non essere altro che una lunga e difficile pratica di iniziazione, attraverso la quale nuovi “sacerdoti” vengono addestrati a perpetuare un linguaggio criptico e un po’ magico a cui però, in certi posti o in certe fasi storiche, gli individui sono disposti a prestare fede; e potrebbe aggiungere che, da questo punto di vista, il “diritto” sta dando segni di cedere il passo, almeno in certi settori, ad altri strumenti di controllo sociale, come la pubblicità commerciale per esempio. Se poi noi ci rivolgessimo ad un filosofo – anche qui, non ad uno “generico”, ma proprio ad uno studioso di Filosofia del diritto – potremmo ricevere risposte non meno spaesanti. Potremmo sentirci dire che il diritto è un sistema di segni linguistici e come tale va analizzato; oppure che è espressione di una legge naturale eterna, dalla quale il legislatore non è libero di discostarsi; oppure che è il comando del sovrano o un insieme di enunciati deontici e così via. Non c’è nulla di strano: le definizioni non sono “vere”, ma servono e vanno apprezzate per la loro utilità. Come strumenti, non sono apprezzabili se non in vista di un fine: quindi, per ogni fine c’è almeno una definizione utile, “giusta”.

E così siamo ritornati al punto di partenza. Per i fini del giurista pratico, la definizione del diritto come insieme di regole va più che bene: le idee che del diritto gli prospettano sociologi e filosofi gli sembreranno troppo astratte per essere utili, semplici schizzi, immagini stereotipate troppo lontane dalla sua esperienza, semplificazioni eccessive di una realtà della cui complessità egli è ben conscio. Il suo problema sarà anzi ancora più concreto: non già chiedersi cosa sia il diritto in astratto, ma quale sia il diritto da applicare ad un problema specifico e concreto. Qual è il diritto – cioè l’insieme di regole – applicabili ad internet, per esempio? È questa la ragione che porta chi inizia il corso di un qualsiasi “diritto” (inteso come materia) a dichiarare innanzitutto quali sono le “fonti” delle regole che quella specifica materia disciplinano. Poi, ogni tanto, il lavoro del pratico inciampa in qualcosa di non classificabile, come un codice di autoregolamentazione di qualche corporazione professionale (i giornalisti, per esempio, o i provider di internet), una regola contrattuale applicabile al commercio internazionale, elaborata da qualche autorevole organismo privato, o un corpo di regole mai scritte sulla cui base una corte internazionale pretende di giudicare i misfatti del dittatore di turno. E allora gli sorge immediatamente la domanda: questo è diritto?

Premesso che tutto (o quasi) il diritto che si insegna nelle Università è diritto dello (o derivante dallo) Stato, una grande divisione viene tracciata tra due famiglie di “diritti”, ossia tra due sottoinsiemi di norme: il diritto pubblico e il diritto privato. La differenza è indicata in ciò: mentre nel diritto pubblico si tratta, oltre che dell’organizzazione dei pubblici poteri, dei rapporti tra l’autorità pubblica ed i privati – rapporti dominati dalla prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato – nel diritto privato si tratta dei rapporti tra soggetti privati, che stanno in posizione di parità. È una classificazione tradizionale che fa acqua da tutte le parti, ma non produce danni, perché serve solo come indicazione di massima per orientarsi tra le materie di insegnamento. Dal ceppo del diritto privato derivano il diritto civile, il diritto commerciale, il diritto del lavoro, il diritto industriale, il diritto di famiglia, ecc. Dal ceppo del diritto pubblico derivano invece il diritto costituzionale, il diritto amministrativo, il diritto ecclesiastico, il diritto tributario, il diritto penale, ecc. L’oggetto specifico del diritto costituzionale può essere diviso in quattro argomenti: – le fonti del diritto, ossia i meccanismi con cui si producono le norme giuridiche nell’ordinamento italiano; – l’organizzazione costituzionale dello Stato, ossia i rapporti tra gli organi costituzionali (il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, ecc.: la c.d. forma di governo) e quelli tra l’apparato dello Stato e il popolo (la c.d. forma di stato); – le libertà e i diritti costituzionali; – la giustizia costituzionale.

Testi consultati:

- Bin, R. Come si studia il diritto. Una guida pratica per affrontare con successo la facoltà di giurisprudenza. Milano: Il Mulino, 2006;
- Pisa, P. et al. Manuale di diritto penale. Parte generale. Roma: Giuffre’, 2016;
- Piasani, A. Lezioni di diritto processuale civile. Roma: Joevene, 2021.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
Email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com